Paolo Albani è uno scrittore, poeta visivo e performer italiano. Dirige Nuova Tèchne, rivista di bizzarrie letterarie e non, è membro dell’OpLePo (Opificio di Letteratura Potenziale).
È autore di curiosi repertori enciclopedici, tra i quali Aga magéra difúra. Dizionario delle lingue immaginarie, che riprende nel titolo un verso del celebre Dialogo dei massimi sistemi di Tommaso Landolfi, Forse Queneau. Enciclopedia delle scienze anomale, in omaggio a Raymond Queneau e Mirabiblia. Catalogo ragionato di libri introvabili (Zanichelli). Autore di numerose pubblicazioni e di racconti comico-surreali, tra i quali I mattoidi italiani, Dizionario degli istituti anomali nel mondo e Umorismo involontario (Quodlibet), Il complesso di Peeperkorn. Scritti sul nulla (Italo Svevo).
Il suo libro è I sogni di un digiunatore e altre instabili visioni.
- Quando la scrittura è entrata nella sua vita?
Ho cominciato a scrivere che ero un adolescente, poesie ahimè, ricordo la forte emozione che provai quando nel 1966 (avevo 20 anni) “La Fiera letteraria”, una rivista importante diretta a quei tempi da Diego Fabbri, pubblicò alcune mie poesie. Poi, più avanti, cominciai a scrivere racconti, e anche lì, quando negli anni 80 la rivista “Il Cavallo di Troia” pubblicò un mio breve racconto – L’ombra s’intitolava, e parlava di un tizio che s’innamora della propria ombra – rimasi molto contento, si trattava di un raccontino che era piaciuto a Luigi Malerba, un inizio incoraggiante.
- La scrittura entra in contatto con la poesia visiva e le performance? In che modo?
Credo che fra la mia ricerca visiva, le mie performance (in particolare giocate sul suono delle parole) e la mia scrittura ci siano dei legami stretti che sono l’elemento giocoso, il taglio ludico e surreale che le attraversa tutte.
- Ci presenta il suo libro “I sogni di un digiunatore e altre instabili storie”?
Le storie di cui si parla in questi racconti sono in apparenza bislacche, improbabili, visionarie, ma in realtà, a modo loro, riflettono le paure, le contraddizioni, le aspettative della nostra incerta quotidianità. Come la storia di quel tizio che trova due giovani sbandati che fanno l’amore dentro la propria casella postale, o quella dello scrittore che incontra un suo postero in un caffè di Firenze e scopre che, in un futuro non ben definito, i libri che ha scritto non li legge nessuno, o ancora la storia di quel giovane che sta per sposarsi con un’extraterrestre e intraprende un viaggio low cost per Marte. Sono racconti scritti in prima persona, forse perché, nel bene e nel male, i personaggi sono delle varianti di un mio alter ego. Del resto Flaubert diceva: «Madame Bovary c’est moi».
- Il suo libro è una raccolta di racconti caratterizzato da una forte comicità e leggerezza però se letto non in modo superficiale subito si captano temi importanti e di un certo spessore, questi due aspetti rendono la raccolta un libro per tutti, quindi uno dei suoi intenti era anche quello di offrire una lettura piacevole sia a chi cerca una lettura leggera e farsi una risata sia a chi vorrebbe leggere un libro che potremmo definire impegnativo però affrontando la lettura in un certo senso con leggerezza?
Il paradosso e il grottesco, che sono il sale e il pepe che tonificano i miei racconti, sono ingredienti che mettono in luce, spingendo sul pedale del comico, un comico leggero e riflessivo, aspetti insoliti, curiosi, bizzarri della nostra vita quotidiana. In questo senso si tratta di racconti di un realismo divertente e amaro allo stesso tempo.
- È intrigante sapere che i racconti sono stati ispirati da un uomo realmente esistito e questo spiega anche il titolo scelto per la raccolta, quindi le voglio chiedere: dietro questo personaggio (Giovanni Succi) e il titolo della raccolta c’è qualcosa che vuole trasmettere al lettore?
Nessun messaggio, per carità. I messaggi, diceva Nabokov, me li porta il postino la mattina. Giovanni Succi è una figura di digiunatore di professione molto simpatica, una sorta di mattoide che credeva di essere la reincarnazione dello “spirito del leone”, c’è una voce nella Treccani dedicata a Succi. Il digiuno, sul piano letterario, a me fa venire in mente la brevità, che è una grande virtù per chi scrive, adoro la brevità. Non a caso in esergo al libro ho messo un aforisma di Stanisław Jerzy Lec: «Siamo brevi, il mondo è sovraffollato di parole». Dovessi consigliare una dieta a un giovane scrittore, per mantenersi in forma (stilistica), gli direi di scrivere per alcuni mesi degli epigrammi e dei mottetti a colazione, un limerick fuori dei pasti e non più di tre, quattro aforismi al giorno.
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Non amo le raccolte di racconti ma l’intervista è carina☺️
RispondiEliminaNon conoscevo l'autore!
RispondiEliminaNon lo conoscevo ma questa intervista mi ha aiutato a conoscerlo. A questo punto direi che i suoi lavori siano divertenti ma riflessivi allo stesso tempo
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